Il discorso di Peppone

Peppone incominciò a parlare e non aveva bisogno d’altoparlante perché la sua voce era potente e arrivava fin sull’argine del fiume grande.
Io vi porto il saluto del popolo - incominciò Peppone - Di quel popolo  che ha voluto significarvi il suo affetto con una generosa offerta di commestibili, nonché vino e generi di conforto. Assieme al saluto dei lavoratori io vi voglio portare la voce della coscienza democratica. Quella voce che ha una sola parola: Pace!...”

“Gesù ci siamo” ansimò don Camillo
“Pace che vuol dire giustizia sociale, lavoro, libertà” continuò Peppone “rispetto della vita umana, la quale sono passati i tempi barbari e medioevali del popolo considerato come carne da macello per gli interessi sporchi degli speculatori e degli sfruttatori.”
Il maresciallo dei carabinieri che ascoltava dietro un pilastro del porticato si asciugò il sudore e si toccò la tasca dove stavano il taccuino e la matita.

“Voi figli del popolo” urlò Peppone “non siete al servizio dei politicanti che siedono al governo, ma siete al servizio del popolo! E il popolo vuole la pace! Il popolo vuole soltanto quella pace che è insidiata dalle macchinazioni atlantiche, e quella pace dovete difendere. Non vogliamo cannoni! Vogliamo lavoro e case! Non vogliamo bombardieri e sottomarini: vogliamo strade, scuole, acqua, giustizia! Non vi lasciate ingannare da coloro che, quando arriverete nelle caserme, vi parleranno di patria e di altre balle! La patria siamo noi! La patria siamo il popolo! La patria siamo i lavoratori che soffrono!...”

Don Camillo sudava come una fontana e il microfono gli scottava tra le mani. “Gesù” implorò “date un po’ di luce a questa mia povera testa piena di buio. o io, se quello continua, farò una fesseria!”
Dio lo illuminò e gli diede la forza di staccare il microfono e di innestare la spina dell’altoparlante nel radiogrammofono.

“Se continuerà, farò della musica!” decise don Camillo.

Peppone aveva ripreso fiato, e il maresciallo teneva già tra le mani la matita e il notes.

“Reclute!” urlò Peppone. “Ascoltate la voce del vostro popolo! Andate nelle caserme perché così vuole la barbara legge nemica dei lavoratori, ma dite chiaro e tondo a coloro che tentano di armarvi per combattere i fratelli proletari del grande paese della libertà che voi non combatterete! Dite che voi …”
In quel momento l’altoparlante della torre cominciò a crepitare. Don Camillo attaccava.

Peppone si interruppe e impallidì. E tutti stettero zitti.

Cosa avrebbe detto l’altoparlante?

Ma dalla tromba non uscirono parole

Uscirono dall’altoparlante le note dell’Inno del Piave.

Già, il Piave

Peppone, rimasto a bocca aperta, non riusciva a innestare la marcia, ma lo Smilzo gli allungò una pedata in uno stinco, e allora si riprese. La sua voce potente si frammischiò alla musica che usciva dall’altoparlante.

“Dite a coloro che tentano di ingannare il popolo, a coloro che diffamano il popolo, che i nostri padri hanno difeso la patria dall’invasore allora e noi siamo pronti oggi a tornare sul Carso e sul Monte Grappa dove abbiamo lasciato la meglio gioventù italiana. Dovunque è Italia, dappertutto è Monte Grappa, quando il nemico si affaccia ai confini sacri della patria! Dite ai diffamatori del popolo italiano che, se la patria chiamasse, i vostri padri, ai quali brillano sul petto le medaglie al valore conquistate sulle pietraie insanguinate, giovani e vecchi si ritroveranno fianco a fianco e combatteranno dovunque e contro chiunque nemico, per l’indipendenza d’Italia e al solo scopo del bene inseparabile del Re e della Patria!”

Ma si, il Re! E il Re volò via assieme alla patria sulle ali del Piave salutato dalle urla deliranti di una piazza gremita. E il maresciallo dei carabinieri lo vide passare per il cielo della Repubblica ma non lo infilzò col lapis per appiccicarlo sulla carta del notes.

Anzi lo salutò portando la mano alla visiera.


dal capitolo L’altoparlante in Don Camillo e il suo gregge
di Giovannino Guareschi